Fare lo Psicologo è una vocazione?
In fondo, siamo tutti un po’ psicologi. Quante volte avete sentito una frase di questo tipo? Io moltissime, e puntualmente mi sono visto alzare gli occhi al cielo e tenere a freno una risposta acida.
Non è tanto il disaccordo a prendere il sopravvento in quei momenti, quanto lo sconcerto di fronte alla totale mancanza di consapevolezza dell’altro. “Non ti sei accorto che stai svalutando il lavoro che svolgo, la formazione che sto portando avanti, la mia identità in costruzione?” La risposta è no. L’altro giorno, per necessità logistiche e un po’ per diletto, mi sono divertito a costruire una piccola prolunga. Questo, di fatto, non mi legittima a raccontare in giro che, sì insomma, siamo tutti un po’ elettricisti.
Il preambolo autobiografico nasce dall’idea di voler condividere una riflessione per me molto importante. Sono fermamente convinto che fare lo Psicologo sia un lavoro che si impara e che si costruisce con lo studio, l’esperienza e l’impegno quotidiano. Credo al contempo che, come in ogni altra attività, la predisposizione faccia la differenza. Un’enorme differenza. Perlomeno, è quello che è successo a me.
Quando scrivo “predisposizione” non intendo fare riferimento a qualità certamente importanti come l’ascolto di sé, l’empatia, la sensibilità ecc. Cerco invece di inquadrare il significato del termine “vocazione”, e nel farlo mi appoggio alla definizione che si trova nel Vocabolario Treccani: “Inclinazione naturale ad adottare e seguire un modo o una condizione di vita, a esercitare un’arte, una professione, a intraprendere lo studio di una disciplina.”
Per me la vocazione è stata quella di rendermi conto, giorno dopo giorno, che ero motivato a continuare a esplorare questa disciplina, prima attraverso lo studio e successivamente nell’esperienza professionale. Un’esperienza che non si può liquidare con la timbratura di un cartellino, ma che ti entra nella testa, nella pancia, nelle ossa. Un’esperienza che non si può vivere in solitudine, ma che respira nella riflessione condivisa, negli scambi continui, nel sostegno reciproco.
Mi accorgo di come “fare lo Psicologo” sia diventato il MIO lavoro, qualcosa che mi definisce e al contempo mi accompagna a costruire la mia identità. Ovviamente, questo coinvolgimento, se mal indirizzato, può anche diventare controproducente. Difatti, chi vive quotidianamente nel sociale, nella scuola o in ambito sanitario, sa bene quanto il rischio di sfruttamento, di burnout o di workaholism sia molto elevato.
La vocazione professionale tende a farci superare i confini tra vita lavorativa, vita privata e interessi personali, confini già difficili da mantenere in virtù del fatto che non possiamo “nasconderci” in questo tipo di lavoro. Siamo chiamati ad esserci, a relazionarci con autenticità ed empatia. Insomma, è una faticaccia.
Leggendo un articolo condiviso da un mio amico tempo fa, mi sono imbattuto in un’estremizzazione di questo pensiero, però con protagonisti gli infermieri. Anthony Heyes ha pubblicato un saggio originale e provocatorio sul prestigioso Journal of Health Economics, dal titolo che tradotto suona più o meno così: L'economia della vocazione o "perché un'infermiera mal pagata è una buona infermiera"?*
Sostanzialmente l’autore gioca su un paradosso della vocazione professionale. Se da un lato, infatti, evidenzia la carenza di personale infermieristico, dall’altro sottolinea come un aumento salariale potrebbe sì attrarre un maggior numero di persone, ma interessate principalmente al guadagno. Persone senza una reale vocazione. L’ipotesi paradossale sarebbe dunque che, tenendo bassa la remunerazione, si riuscirebbe a mantenere alta la qualità degli infermieri.
Mi chiedo, un po’ scherzandoci sopra e un po’ in modo provocatorio: questa è forse la stessa tendenza che osserviamo nel nostro Paese? In molti ambiti lo Psicologo è sottopagato perché si cerca di mantenere alta la qualità dei professionisti? Non ci è dato sapere. In ogni caso, la questione economica ci riguarda da vicino, e in parte è stata un tema caldo di questo lungo periodo di pandemia. Per venire incontro alle difficoltà della popolazione, molti nostri colleghi hanno infatti giocato a una corsa al ribasso dei prezzi per le prestazioni professionali. Anche se da un lato questa potrebbe essere vista come una scelta di tipo “etico” e "solidaristico", dall’altra rischia di lanciare un pericoloso messaggio: lo psicologo è un missionario.
Forse è in questo aspetto che la mia vocazione si discosta maggiormente dall’etimologia religiosa del termine. Non ho sentito nessuna chiamata dall’alto e non gioco le mie competenze su un piano compassionevole o caritatevole. Al contrario, sento che proprio il riconoscimento economico e sociale sia ciò che mi restituisca un senso e una dignità professionale, senza i quali quei famosi confini, già messi a dura prova dalle mie emozioni, cesserebbero di salvaguardarmi dai rischi di questo mestiere.
*Heyes A. (2005), The economics of vocation or ‘why is a badly paid nurse a good, Journal of Health Economics, 24, n.3. pp. 561-569
Credo sia importante aprire un dialogo su una questione così importante, attuale e delicata della nostra professione. Vi invito, come di consueto, a inviarmi eventuali feedback e considerazioni alla seguente mail:
Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.