Neet: una generazione di giovani emigrati
NEET è un neologismo che descrive un fenomeno molto diffuso negli ultimi anni, concernente l’isolamento sociale dei giovani. J. Bynner e S. Parsons utilizzano per primi questo termine, nel 2002, per indicare tutti quei ragazzi Not (Engaged) in Education, Employment or Training non impegnati nel proseguimento degli studi, in attività di formazione o in un impiego. Gli autori descrivono i NEET come giovani che rimangono in una dimensione infantile, non compiendo gli step necessari al passaggio nel mondo sociale, nella cosiddetta vita adulta.
L’acronimo NEET nasce in ambito sociologico, per descrivere una categoria marginale al mercato del lavoro, col tempo però ha assunto una forte valenza culturale, per certi versi denigratoria nei confronti dei giovani. Infatti, in modo provocatorio, la generazione dei NEET viene spesso definita come: “gli sdraiati”, “kidult”, “mammoni” e così via. Si è creata nel tempo una rappresentazione di giovani pigri, immaturi e dipendenti dal supporto familiare.
In Italia, nel 2018, circa il 24% delle persone comprese tra i 15 e i 29 anni è considerata NEET, percentuale tra le più alte d’Europa. Indagare la ragione di numeri così elevati non è semplice, poiché l’inattività può derivare da diverse cause. Dal fallimento nella ricerca di un lavoro, alla mamma che preferisce accudire i propri figli, al neolaureato che gira il mondo per un lungo periodo. In ogni caso, statistiche così importanti fanno pensare a un problema strutturale, di natura socio-economica.
Nel 2018 l’ANPAL (Agenzia Nazionale Politiche Attive Lavoro) ha effettuato un’indagine sugli oltre 2 milioni di NEET italiani, delineando una tassonomia che li suddivide in 4 tipologie:
- In cerca di occupazione, generalmente disoccupati di breve o lunga durata
- In cerca di opportunità, impegnati e legati solo informalmente al mondo del lavoro o della formazione
- Indisponibili, a causa di impegni familiari o problemi di salute
- Disimpegnati, NEET per definizione, coloro che non cercano lavoro, non si stanno formando, non hanno vincoli di nessun genere
Questa classificazione permette di fare maggiore chiarezza sul fenomeno. Infatti, emerge che le persone veramente “disimpegnate” sono solo il 14% del totale, mentre la quota maggioritaria, circa il 41%, appartiene alla categoria “in cerca di occupazione”. Tali dati non sembrano riflettere un evitamento della responsabilità da parte dei giovani, causato da apatia o negligenza. Sebbene ci siano i presupposti sociali per fare queste considerazioni, la relazione tra disoccupazione e disimpegno definisce piuttosto una situazione di difficoltà diffusa.
La questione, come già abbiamo sottolineato, è di natura strutturale. I giovani hanno pochi strumenti per comprendere la realtà in cui si muovono, oggi in eterno mutamento, e per questo motivo sono estremamente fragili e disabituati alla frustrazione. Essi non trovano lavoro, non si sentono supportati dalle istituzioni, non hanno un senso di appartenenza alla società. Si pensi, ad esempio, all’aumento della migrazione dei laureati.
L’isolamento, così come l’indolenza, non sono caratteristiche di questa generazione, ma sembrano essere modalità difensive, se non scelte di vita, dettate dal senso di inadeguatezza e dalla disperazione.
Fonti:
Bynner J., Parsons S. (2002), Social exclusion and the transition from school to work: the case of young people not in education, employment of training (NEET), Journal of Vocation Behavior, 60:2, pp. 289-309
https://www.eurofound.europa.eu/sites/default/files/ef_publication/field_ef_document/ef1602en.pdf